05 – 10 maggio 2003

Sabato 10 maggio 2003, ore 21
Roma, Antica Libreria Croce
Le parole in tasca
reading di narrativa e poesia

locandina PDF

Le letture e gli oggetti

Michele Mari (voce registrata di Federico), da Tutto il ferro della Torre Eiffel, Einaudi, 2002 – (la madeleine)

Combray non si chiama Combray ma Illiers: oggi però i cartelli stradali e le guide lo designano per Illiers-Combray. Quivi, un museo intitolato a Marcel Proust: otto sale di prime edizioni, fotografie, calamai, flaconi di pastiglie per l’asma, giacche da camera, fazzoletti cifrati, canne da passeggio, ricco materiale tuttavia svalutato dalla sua stessa collocazione, che distendendosi dalla seconda all’ultima sala lo fa successivo all’unico oggetto presente nella prima sala, in una teca di plexiglas cm 35x20x25: la madeleine.
Nei primi anni del museo la madeleine era di autentica frolla: ad essa provvedeva il custode, che ogni lunedì mattina apriva la teca, rimuoveva il biscotto e lo sostituiva con uno fresco. Cosa poi il custode facesse del vecchio non è dato sapere: è verosimile lo mangiasse, non per questo deducendone alla crassità dei suoi lobi illuminazioni mnemoniche. La sostituzione settimanale della madeleine era dovuta alta sua impossibilità di indurirsi seccando: anzi come porosa e burrosa l’instabile pasta tendeva a disgregarsi perdendo dopo una dozzina di giorni uno spolviglio di forfora rancia, cui si aggiungevano più cospicui frammenti se qualcuno urtasse la teca. Il direttore del museo aveva chiesto al pasticcere di mettere più burro nell’impasto, ma l’esito non era stato buono: concotto dal calore degli interni faretti, quel sovrappiù di manteca allargava ben presto nella superficie spugnosa della madeleine fiori brunastri che le davano un incongruo aspetto leopardato: quando non evocassero la sofferenza della foglia di vite arrugginita dalla peronòspora. A non dir delle camole e dei piccoli vermi che, a dispetto di ogni ermetismo, nascevano sponte nella pasta rafferma: uscendone poi per darsi all’avventurosa esplorazione del loro tabernacolo-mondo, come a irridere ancora, i putrigeniti, alle positive dimostrazioni di Spallanzani e Pasteur.
Cosi il custode sostituiva, e continuò a sostituire fino al giorno in cui andò in pensione. Quello stesso giorno il direttore si trovò ad affrontare un problema sindacale. Il nuovo custode fece notare che il proprio mansionario non prevedeva quella speciale corvée, e che se proprio si doveva, gli fosse pagata a parte. Uomo puntiglioso, il direttore non volle sottostare: onde, dopo aver lasciato invecchiare quell’ultima madeleine ben oltre i limiti tollerabili, elaborò la soluzione che vige tuttora. Fu cosi che, commissionata a un laboratorio di giocattoli di Rouen, venne acquisita al museo una madeleine di plastica: un’imitazione perfetta, non fosse per il segno della saldatura fra le due valve della conchiglia-biscotto: secondo infallibile legge del PVC.
Tu la vedi, questa cosa, e ridi: ma è un pianto; e dici: se la letteratura genera questo, è questo, la letteratura. Ed è la vendetta del mondo, perché la letteratura che non si difenda dal mondo cos’è, se non mondo? E il mondo è qui polimero fuso: ma fuso a forma di letteratura, così, volessimo uscire, sappiamo che non si può, nemmeno ogni tanto.

 


 

Javier Marías (Monica), da Un cuore così bianco, Einaudi, traduzione di Paola Tomasinelli – (un cuscino)

La vera unione nei matrimoni e nelle coppie la portano le parole, più delle parole dette – dette volontariamente – le parole che non si possono tacere – che non si possono tacere senza l’intervento della nostra volontà.
Non è tanto il fatto che tra due persone che condividono il cuscino non ci siano segreti perché così hanno deciso- cosa in sé abbastanza grave per costituire un segreto, ma che non lo è se lo si tace- quanto il fatto che non è possibile smettere di raccontare, riferire, e commentare ed enunciare, come se fosse questa l’attività primordiale delle coppie, almeno di quelle recenti che ancora non sentono l’indolenza delle parole.
Non è solo che con la testa sul cuscino ricordiamo il passato e anche l’infanzia e ci ritroviamo nella memoria e nella bocca i fatti remoti e i più insignificanti e tutti acquistano valore, né che siamo disposti a raccontare tutta la nostra vita a chi appoggia la testa sul nostro cuscino, come se sentissimo il bisogno che tale persona potesse vederci dal principio- soprattutto dal principio, ossia, da bambini- e potesse assistere attraverso la narrazione a tutti gli anni in cui non ci conoscevamo e che adesso crediamo di aver trascorso nell’attesa d’incontrarci. Non è solo, neppure, un’ansia comparativa di parallelismi o di ricerca di coincidenze, il sapere ognuno dov’era l’altro nelle differenti epoche delle proprie esistenze e fantasticare sull’improbabile possibilità di essersi conosciuti prima, agli amanti il loro incontro sembra avvenuto sempre troppo tardi, come se il tempo della loro passione non fosse il più adeguato o mai abbastanza lungo, visto in retrospettiva (diffidiamo del presente), o forse non si sopporta che tra loro non ci sia stata passione, nemmeno intuita, quando entrambi stavano già al mondo, inseriti nel suo trascorrere frenetico ma dandosi le spalle, senza conoscersi né forse volerlo. Non è nemmeno che si stabilisca un sistema di quotidiano interrogatorio che, per stanchezza o abitudine, nessun coniuge riesce a evitare e dunque finiscano tutti per rispondere. E’ piuttosto che lo stare insieme consiste in buona parte nel pensare a voce alta, nel pensare tutto due volte invece che una, una con il pensiero e l’altra con il racconto, il matrimonio è un’istituzione narrativa. O forse è per tutto il tempo passato in mutua compagnia (per poco che sia, nei matrimoni moderni, è sempre tanto) che i due coniugi (ma soprattutto il maschio, che si sente colpevole quando sta zitto) devono afferrare ciò che pensano e che gli capita e che gli succede per distrarre l’altro, e così finisce per non rimanere quasi nulla dei fatti e dei pensieri di un individuo che non venga trasmesso, o tradotto matrimonialmente. Vengono anche trasmessi i fatti e i pensieri degli altri, che ci hanno confidato in segreto, da lì la famosa frase che dice “a letto ci si racconta tutto”, non ci sono segreti tra chi lo condivide, il letto è un confessionale. Per amore o per la sua essenza -raccontare, informare, annunciare, commentare, opinare, distrarre, ascoltare e ridere, e proiettare invano- si tradiscono gli altri, gli amici, i genitori, i fratelli, i consanguinei e i non consanguinei, i vecchi amori e le convinzioni, le antiche amanti, il proprio passato e la propria infanzia, la propria lingua che non si parla più e dunque la patria stessa, ciò che di segreto sta in ognuno di noi, o forse è passato. Per gratificare chi si ama si denigra il resto di ciò che esiste si nega e si rinnega tutto per accontentare e rassicurare una sola persona che se ne potrebbe andare, la forza del territorio che delimita il cuscino è tanta da escludere da sé ciò che non sta in esso, ed è un territorio che per sua stessa natura non permette che nulla stia in esso, eccetto i coniugi, o gli amanti, che in certo senso restano soli e per questo parlano e non tacciono mai, involontariamente.
Il cuscino è tondeggiante e morbido, e spesso bianco, e con il tempo il tondeggiante e il bianco sostituiranno il mondo, e la sua debole ruota.

 


 

Emily Dickinson (Giuseppe), due poesie [numeri dell’edizione Johnson], in: www.emilydickinson.it, traduzione di Giuseppe Ierolli

585 (1862) – (una locomotiva a vapore)

Mi piace vederlo divorare le Miglia –
E inghiottire le Valli –
E fermarsi a mangiare alle Cisterne –
E poi – in prodigiosa andatura

Intorno a Mucchi di Montagne –
E altezzoso dare un’occhiata
Nelle Casupole – a fianco delle Strade –
E poi tagliarsi Gallerie

Adatte ai suoi fianchi
E strisciarvi in mezzo
Lagnandosi nel frattempo
In orrida – urlante strofa –
Poi precipitarsi giù per la Collina –

E nitrire con rumore di Tuono –
Poi – puntuale come – una Stella
Fermarsi – docile e onnipotente
Alla porta della sua scuderia –

671 (1863) – (un fiore)

Ha preso dimora nel Terreno –
Dove le Giunchiglie – abitano –
Il Suo Creatore – la Sua Metropoli –
L’Universo – la Sua Domestica –

Modellarne la Grazia – e il Colore –
E la Purezza – e la Fama –
È compito del Firmamento – Coglierlo –
E portarlo a Te – sia il mio –

 


 

Samuel Beckett (Federico), da “Immaginazione morta immaginate”, in Teste-morte, Einaudi, 1969, traduzione di Valerio Fantinel e Guido Neri – (uno specchietto da tasca)

Da ogni parte non una traccia di vita, voi dite, bah, e con questo, immaginazione mai morta, ma sì, appunto, immaginazione morta immaginate. Isole, acque, azzurro, verzura, attenzione, pfff, via tutto, un’eternità, zitti ora. Finché tutta bianca dentro il bianco la rotonda. Non c’è entrata, entrate, misurate. Diametro 80 centimetri, stessa distanza dal suolo alla sommità della volta. Due diametri ad angolo retto AB CD dividono in semicerchi ACB BDA il suolo bianco. A terra due corpi bianchi, ciascuno nel suo semicerchio. Bianchi anche la volta e il muro circolare su cui poggia alto 40 centimetri. Uscite, una rotonda disadorna, tutta bianca dentro il bianco, rientrate, picchiate, pieno in ogni punto, suona come nell’immaginazione l’osso suona. Alla luce che fa tanto bianco nessuna sorgente visibile, tutto splende di un bagliore bianco eguale, suolo, muro, volta, corpi, non un’ombra. Calore intenso, superfici calde al tatto, non scottanti però, corpi sudati. […] Vuoto, silenzio, calore, bianco, aspettate, la luce si abbassa, tutto si oscura di concerto, suolo, muro, volta, corpi, 20 secondi circa, tutti i grigi, la luce si spegne, scompare ogni cosa. Si abbassa al tempo stesso la temperatura, per raggiungere il minimo, zero circa, nell’istante in cui viene il buio, questo può sembrare strano. Aspettate, più o meno lungo, luce e calore ritornano, suolo, muro, volta e corpi imbiancano e si riscaldano di concerto, 20 secondi circa, tutti i grigi raggiungono il livello di prima, dal quale aveva preso inizio la caduta. […] All’esterno tutto resta immutato e il piccolo edificio sempre di difficile reperimento, di un bianco che si confonde in quello circostante. […] Luce e calore rimangono collegati come se forniti da una sola e stessa sorgente di cui sempre nessuna traccia. Sempre a terra, piegato in tre, con la testa contro il muro in B, il culo contro il muro in A, i ginocchi contro il muro tra B e C, i piedi contro il muro tra C e A, vale a dire inscritto nel semicerchio ACB, non distinguibile dal suolo se non fosse per la lunga chioma di un bianco incerto, un corpo bianco di donna insomma. Compreso similarmente nell’altro semicerchio, contro il muro la testa in A, il culo in B, i ginocchi tra A e D, i piedi tra D e B, bianco anche lui come il suolo, il compagno. Sul fianco destro tutti e due e in senso contrario schiena a schiena. Accostate uno specchio alle labbra, si appanna. […] Nonostante lo specchio potrebbero sembrare inanimati senza gli occhi sinistri che a intervalli incalcolabili a un tratto si sgranano e restano spalancati molto oltre le possibilità umane. Azzurro pallido acuto un effetto impressionante, nei primi tempi. Mai i due sguardi insieme salvo una sola volta una decina di secondi, l’inizio dell’uno sovrapponendosi alla fine dell’altro. […] Tra la loro mobilità assoluta e la luce scatenata il contrasto è sorprendente. […] Lasciateli là, nel sudore e ghiacciati, c’è di meglio altrove. Ma no, la vita finisce e non finisce, non c’è niente altrove, impensabile trovare quel punto bianco perduto dentro il bianco, vedere se sono rimasti fermi nel culmine di questa bufera, o di una peggiore, o al buio completo davvero, o nel grande bianco immutabile, e che cosa fanno se no.

 


 

Elvio Cipollone (Elvio), dal racconto Notte gialla, inedito – (un bicchiere di plastica)

Uscii nella notte, sazio. Nella semplicità della mia vigliaccheria, persino il rancore che portavo a Giovanna si scioglieva nel fumo. Sapevo che ci avrebbe sofferto, ma solo com’ero non mi permettevo il lusso di provare pietà. Vederla soffrire era nulla, tanto di lei non m’importa. Anzi, un po’ l’invidiavo perché lei la fortuna di amarmi l’aveva.
Aspirai la sigaretta e presi per il vicolo, chiedendomi quanto fossi ridicolo, convinto che la vita fosse un pieno di sciocchezze, un colpevole senso di solitudine. Vuoto silenzio, e lontano lo scroscio del mare.
Era mezzanotte passata, il vento gelato si incuneava tra i carugi e mi costrinse ad alzare il bavero della giacca. Cercai un bar, una bettola aperta, almeno una, giù al porto. Ci trovai Pino, seduto al suo angolo, col litro appena intaccato. Mi fissò senza muoversi e gli sedetti di fronte, non c’era bisogno d’invito tra noi.
“Che dobbiamo fare con questa guerra, Dario?”
Sempre così me lo ricordo, con la politica in testa e le sorti del mondo, poi si ritrova solo all’una di notte col suo litro, con la testa riccioluta nonostante i cinquanta e la pancia che non sa contenere.
“Cosa ci possiamo fare noi? Tanto, è lo stesso” risposi.
Pino posò il suo bicchiere sul tavolo; aspettava che portassero anche il mio, c’era tutta la notte per parlare e non volevamo bruciare argomenti. Bevemmo in silenzio mentre continuavo a guardargli le mani e a chiedermi cos’è che ci teneva allo stesso tavolo, noi due. Ci conoscevamo da anni, ci incontravamo nelle ore più strambe, in quei quattro o cinque bar tra il porto e via del Campo, ma non sapevamo nulla l’uno dell’altro.
Mai che provavo a immaginare che vita fosse la sua, quali vicende si nascondessero dietro alla sua tristezza, se una moglie o un’amante l’aspettasse, se un figlio soffrisse nel saperlo disperso, se una madre invocasse il suo nome. E lui non s’era scoperto nemmeno per sbaglio, né credo si fosse mai chiesto qualcosa di me.
La sua attenzione era divisa tra il vino e le cose del mondo. Eppure qualcosa ci legava a uno stesso destino.
“Uccidono uomini, donne, terrorizzano bambini” disse scrollando la testa, quando il vino era quasi finito.
Uscimmo insieme sul molo, nel vento che dibatteva fischiando. Pino teneva le mani alla schiena e calpestava pensieroso l’asfalto, bagnato di sbruffi. A un tratto s’arrestò, come se un baratro si fosse aperto ai suoi piedi. “Se si umilia un popolo, un’intera nazione” urlò, “cosa può venirne di buono?”
Io guardavo alle rare luci lontane, pensavo alle mie delusioni, ai rimorsi, alla pace e alla serenità che mi erano negate. Quasi non lo ascoltavo e lui non capì che quella notte ero lì soltanto per piangere. Sforzò la voce: “E noi stiamo qui a far niente, ammazzando la notte”.
Poi di colpo scantona e mi lascia, con un semplice gesto del braccio.
Sono stanco di questa inutile catena che ci lega, penso. Per me possono pure scannarsi, a me non mi scanna nessuno.

 


 

Alessio Brandolini (Alessio), “Tasche vuote” in Divisori orientali, Manni, 2002 – (una candela accesa)

Perché poi si finisce
col consumare
il resto dei giorni
in amori da quattro soldi
reclusi
in scatole cinesi
e quando si vien fuori
ci si ritrova
cancellati dal mondo.

Confesso di temere
di finirci dentro anch’io
con misero guardaroba
dei travestimenti
in tasca il passaporto
la domanda
già pronta delle dimissioni.

Per questo, a volte
accendo una candela
traccio percorsi
all’irriconoscibile
ripristino il sorriso originario
curo i denti guasti
ravvivo con il fuoco
lo sguardo addormentato.

 


 

Antonio Koch (Alessio), “Vita di campagna”, in Comprese importanti informazioni per la sicurezza, I figli belli, 2003 – (una grande sveglia)

Una volta, quando ancora esistevo, abitavo in pieno centro e m’ero rotto le scatole, volevo fare un anno o due di vita di paese, prendere in affitto una stanza in qualche paesino sperduto dell’Appennino toscano per esempio, non scendere in città per un anno e due, vivere lì, fra l’edicola e il bar-tabacchi, la pizzeria e il circolo “Amici del biliardo”, mangiando tramezzini col prosciutto cotto e bevendo vini tipici della zona: sapori genuini, una vita sana, più vera, monotona se vogliamo, ma non per questo noiosa. Tranquilla, se non altro, senza rumori o distrazioni, d’autunno aprire le finestre e intravedere le colline nella nebbia e tutti i colori delle foglie, raccogliere funghi e castagne, prendere magari un cane, fare passeggiate nei boschi e per le campagne col cane, e la sera cenare presto, diciamo alle sette, e passare la sera in poltrona, leggendo alla luce di una lampadina nuda, con una buona scorta di whisky e sigarette, nel silenzio, senza nemmeno la musica. Assolutamente vietata la tv. Conoscere una donna semplice, la commessa della panetteria, magari, o la figlia del tabaccaio, o la ragazza che serve ai tavoli nella pizzeria sulla provinciale, o la farmacista, invitarla fuori, sedersi a chiacchierare di cose poco importanti su una panchina del giardinetto pubblico, portarla in casa, fare sesso e il giorno dopo tutti vengono a saperlo e ti guardano con occhi diversi, con gli occhi del paese. E’ tutta un’altra cosa. In città il caos il frastuono sembra Hong Kong. Non ho poi fatto niente perché avevo il grosso problema che in primavera e parte dell’estate soffrivo di allergia e in campagna sarei stato malissimo. Sono rimasto in città. Però almeno ho spostato il letto nell’altra stanza, quella che non dà sulla strada, per non sentire il rumore del traffico.

 


 

Mary Barbara Tolusso (Alessio), “La mamma ha sempre ragione”, in L’inverso ritrovato, Lietocollelibri, 2003 – (una mamma)

mia madre si arrabbia per come scrivo
e ogni volta che legge qualcosa
rimpiange il mio primo libro.
poi continua che le ho sempre procurato problemi
e che dovrei cercare marito.
io ci ho provato, le rispondo, a cercare marito.
allora attacca che deve essere per quel linguaggio
orribile che uso e non solo nelle poesie.
le spiego che agli uomini piace quel linguaggio orribile
e anche a me.
mia madre è una donna pratica e questa è una grande qualità.
sei uscita con decine di uomini, ripete, mai nessuno
che andasse bene, eppure ho cercato
di educarti al meglio.
non è colpa sua,
sono uscita con decine di uomini
e sono stata educata al meglio.
secondo me, insiste, è perché scrivi poesie.
agli uomini non piacciono le persone che scrivono poesie.
ricapitolando mia madre pensa che non trovo marito
perché scrivo poesie.
non è una cosa seria, ripete, scrivere poesie.
hai ragione, rispondo
e neppure leggerle.

 


 

Damiano Zerneri (Fiamma), da un brano inedito (prima parte) – (una foto di folla e CD di Fatboy Slim)

Ci sono volte che sobbalzi, l’adrenalina è come pulviscolo nell’aria. E la respiri e respiri. Penso a quando i pugili escono dal tunnel tra due ali di folla improvvisamente ammutolita, poi impazzente, poi di nuovo ammutolita. Come quando Ray Sugar Robinson salì sul ring del Madison Square Garden per il suo incontro d’addio. Ancora magro e lieve come prima, con indosso un accappatoio lucido insolitamente corto. Girava lento per ogni lato del ring. Ogni lato un inchino silenzioso alla folla. Che ammutoliva e poi chiamava il suo nome.
Penso anche a quando ho visto recentemente il video di un dj che si chiama Fatboy Slim, con le immagini del rave tenutosi l’anno scorso sulla spiaggia di Brighton. L’uomo stempiato e segaligno, la camicia fuori dai pantaloni, il bicchiere di plastica da autodromo in mano, con dentro aranciata e vodka. Passa nel backstage con l’accredito appeso al collo. Sale sul palco e si mette ai piatti. Parte il primo giro e centomila persone deflagrano letteralmente, lì, sulla spiaggia di Brighton.
Fausto Coppi dopo l’arrivo; il secondo in tuta da meccanico che gli fa strada attraverso la gente in festa. Le gente si accalca vedendo arrivare l’uomo. E’ tempo delle foto di gruppo con le gambe del campione bronzee di strada, l’assieparsi dei bambini vestiti di maglie smesse, il notabile con la lobbia, l’autista dell’ammiraglia con gli occhiali da viaggiante issati sopra la testa. La salvietta bianca appoggiata sul collo del “corridore ciclista”.
Sempre un uomo solo che va verso la folla. La folla che letteralmente se lo beve. A volte fasci di luce diurna lo vanno a cercare, l’uomo, e lo portano tra le braccia della gente. E l’uomo respira come se immagazzinasse aria da sfamare tutti quei corpi che lo guardano. La massa respira se respira l’oggetto della sua attesa. Allora lì capisci che l’uomo solo sta arrivando ed è indifeso, potrebbero mettersi il tovagliolo in grembo e sorbirlo, farlo scomparire in un secondo solo.
A un certo punto lo scrittore Elias Canetti si accorse che la massa esisteva e respirava. Un giorno degli anni trenta, a Vienna, uscì di casa e si trovò nel bel mezzo di una manifestazione operaia. La polizia caricò i dimostranti. Ci furono degli scontri, dei morti. Tutti scappavano e si addensavano dove capitava. Il giovane Canetti rimase sconvolto perché improvvisamente aveva scoperto la multiforme potenza della massa. Corse a casa col cuore in gola bruciato da un’agnizione improvvisa. La folla era un organismo che respirava e prendeva forma come la limatura di ferro in corrispondenza del magnete. Ma quale forma? E come si muoveva il magnete?
La massa che sobbolle in attesa di qualcosa. Nel frattempo reagisce alle sollecitazioni come un animale improvvisamente molto infastidito dagli insetti. Aspetta, la folla, che arrivi il piatto da portata. Dentro il dramma di Büchner “La morte di Danton”, il protagonista, Danton, arriva sulla carretta dei condannati. La scena è sveltissima, poche battute tra il popolo e coloro che son lì per essere ghigliottinati. Leggo e non penso all’amarezza della vittima del terrore giacobino, penso invece a quel popolo lacero e contuso che si porterebbe via subito le figure lassù sul palco. La lama della ghigliottina che rimane alzata e opaca ancora del sangue del giorno prima. Il corpo che vola dentro la distesa di corpi e finisce ingoiato come preso dal gorgo di una corrente.
(alla fine del dramma i carnefici canticchiano smontando la macchina).

 


 

Michele Governatori (Michele), da Il paese delle cicogne, inedito, 2000 – (monetine per macchinetta da caffè)

Mia madre stava in piedi appoggiata a un telefono pubblico a muro, si è voltata verso di me appena sono uscito dall’ascensore.
“Finirà per perdere il bambino” ha detto.
“Stai zitta per favore, dov’è?”
“In rianimazione”.
“In rianimazione dove?”
“Non puoi entrare adesso, è inutile che ti agiti. Fammi il piacere di sederti e aspettare. Ho già chiesto al medico di farmi avere notizie appena si può”.
Qualcuno in vestaglia metteva lentamente monete in un distributore di bevande, forse gli ospedali servono solo a questo: a far capire che qualunque tipo di sofferenza può diventare un insieme di abitudini più o meno normali.
Ho visto mio padre che parlava con un uomo all’ingresso della sala d’attesa, poi si è avvicinato a me. “Matteo, questo signore è coinvolto nell’incidente di tua moglie”.
Era un tipo sui quarant’anni, molto alto, elegante, aveva gli occhi piccoli che mi guardavano con una forma delicata di padronanza.
“Lei non sa come vorrei essere stato in un altro posto, anziché in quella strada proprio in quel momento”.
“Lucia è passata col rosso” ha detto mio padre a bassa voce.
“E poi?”
“Non ho avuto nemmeno il tempo di frenare, ho visto l’auto di sua moglie davanti a me, di lato, e l’ho colpita”.
Ero stupito di come si fa presto a descrivere un incidente. Alla fine non c’è nulla di abbastanza tragico da rendere difficile raccontarlo. Mi sono avvicinato a una grossa finestra, non riuscivo a trovare abbastanza spazio per dare un peso alle cose, mi sentivo come qualcuno da cui ci si aspettano reazioni o idee, e che invece continua a osservare uno stesso fotogramma immaginario.
Mia madre e mio padre erano seduti vicini su due sedie della saletta.
“È un’incosciente. Matteo non avrebbe dovuto mandarla in giro da sola” ha detto lei.
“Mi sembra che esageri” ha risposto lui.
Non si accorgevano che ero poco distante e li sentivo.
È apparso un medico, mia madre s’è drizzata in piedi e ha iniziato a parlargli. Mentre li raggiungevo ho visto il dottore che scuoteva la testa.

 


 

Giovanna Zoboli (Alessio), “Quando passa l’uragano, volano case” in La solitudine dell’ospite, Manni, 2002 – (un grosso bullone)

Quando passa l’uragano, volano case
gli uccelli stanno a terra, gli occhi pieni di polvere,
in attesa, con le palpebre chiuse. Fan nostalgia
le cose che resistono in mezzo agli uragani,
quando la gravità non dà spettacolo, ancorate
alla terra, mute, senza pena apparente – mentre intorno
turbina il mondo.

 


 

Alessio Brandolini (Alessio), Festa del 1° giugno, inedito – (un mazzo di carte)

Sono le cinque del pomeriggio, beviamo un tè al limone parecchio zuccherato incrociando, ogni tanto, i nostri occhi stanchi con quelli arrossati delle persone accalcate davanti alle porte dei vagoni. Tutti hanno con sé bagagli enormi, pesanti e fanno finta di nulla, ci tengo ad apparire tranquilli, a sembrare convinti che per loro un po’ di spazio si troverà sicuramente. Certo, che diamine! Basterà sventolare in alto il biglietto con la prenotazione fatta cinque mesi prima.
La cosa che più interferisce con i nostri pensieri, che molto ci terreb­bero a restare sgombri da ogni cosa sgradevole, sono le facce un po’ patite dei ragazzi. Sostano a lungo nello stretto corridoio, si spazientiscono, si grattano la testa, rumoreggiano. Noi li vediamo attraverso i vetri dello scompartimento e sospendiamo un attimo il gioco prima di chiudere le tendine così da annientare quello spettacolo che ferisce la vista. I bambini non vanno più a scuola, né in piscina, al catechismo. Ci chiediamo: come cresceranno? Infatti eccoli lì che già fanno orrende boccacce, strabuzzano gli occhi in modo vergognoso, tirano calci ai genitori, sputano addosso ai vicini.
Oggi è il primo del mese, giugno: festa del disoccupati! Sarebbe impossibile non farci caso, gli striscioni che da giorni ne annunciano l’arrivo oscurano il cielo d’un blu elettrizzato dalle trasmissioni televisive in presa diretta. I “senza lavoro” vengono da ogni angolo del mondo e hanno fame, sete. Scritte cubitali e cartelloni pubblicitari sono la crosta nuova, variopinta dei palazzi tisici che circondano piazza Vittorio e che vacillano ogni volta che passa un treno della metropolitana. Urlano il loro benvenuto ai manifestanti, strizzano gli occhi, chiedono indulgenza e simpatia. Stavolta sindacato e governo hanno voluto fare le cose in grande e l’aria s’è fatta irrespirabile, infestata com’è di strette di mano, di squallidi abbracci, di bagni chimici, di punti sosta che distribuiscono acqua e panini al formaggio. Io e il mio gemello facciamo finta di niente, seguitiamo a giocare a carte, ma infastiditi parecchio dal frastuono che fa la folla che sfila e poi si raduna a piazza san Giovanni, per la grande festa dei disoccupati del 1° giugno.

 


 

Federico Platania (Federico), “galleggiando (la mia vita dopo il tuffo)”, in Storie, n. 34 , nov/feb 99 – (una manciata di monetine)

Ho scelto la via più difficile
(e non so nemmeno perché).
Non quella che entra lenta in mare
dal bagnasciuga sgranato
ma quella che vi giunge a piombo
dal promontorio di roccia ed erba.
Sono salito là
e mi sono tuffato.
Adesso, riemerso, penso:
“proteggimi
acqua salata del Mediterraneo
conservami la fantasia
e il respiro regolare”.
Spruzzo acqua e rabbia
come un pesce pescato di forza
e vedo i ragazzi sulla spiaggia
che giocano a pallavolo
sollevando secchi sbuffi di sabbia
(giovani atletici dai capelli lunghi
come avete fatto?).
Poi esco.
Percorro il camminamento di pietra scottante
che taglia l’arenile come una cicatrice
e vado grondante verso il bar.
L’uomo ha una maglietta blu
e la pancia sudata.
Mi chiede: “desidera?”.
Io lo guardo dritto negli occhi
e a piena voce gli dico:
“SÌ, DESIDERO SEMPRE
MA IO SONO UNA NAZIONE DEVASTATA DALLA GUERRA
I MIEI FIGLI SONO MORTI SENZA ONORE
E ORA INGRASSANO I VERMI DI QUESTA TERRA CRUDELE
UN CORNETTO ALGIDA
GRAZIE”.
Sulla via del ritorno
con le monete di resto che mi tintinnano in tasca
guardo il filo azzurro del mare
e penso che domani tornerò qui
per tuffarmi ancora.
Si richiede una tecnica sapiente
e braccia forti per tornare in alto
un movimento sospeso e affascinante
qualcosa a metà tra la caduta e il salto.

 


 

James Joyce (Giuseppe), inizio e fine del monologo di Molly Bloom, da Ulisse, Mondadori, 1960, traduzione di Giulio de Angelis – (punteggiatura su pezzetti di carta)

Sì perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo all’albergo City Arms quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva d’essere nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l’anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere addosso a lei si capisce dico che era pia perché nessun uomo si è mai voltato a guardarla spero di non diventar come lei miracolo che non voleva ci si scoprisse la faccia ma certo era una donna colta e quelle buggerate su Mr Riordan qua e Mr Riordan là io dico è stato felice di levarsela di torno e il suo cane che mi odorava la pelliccia e cercava d’infilarmisi tra le sottane specialmente quando eppure questo mi piace in lui così gentile con le vecchie e i camerieri e anche i poveri non è orgoglioso di nulla proprio ma non sempre se mai gli capita qualcosa di grave è meglio che vadano all’ospedale dove tutto è pulito ma io dico mi ci vorrebbe un mese per cacciarglielo in testa sì e poi ci sarebbe subito un’infermiera tra i piedi e lui ci metterebbe le radici finche non lo buttan fuori o una monaca forse come quella di quella fotografia schifosa che ha che è una monaca come lo sono io sì perché sono così deboli e piagnucolosi quando son malati ci vuole una donna per farli guarire se gli sanguina il naso c’è da credere che sia un dramma in piena regola e quell’aria da moribondo scendendo dalla circolare sud quando s’era slogata una caviglia alla festa della corale di Monte pan di zucchero il giorno che avevo quel vestito Miss Stack gli portò i fiori i peggio che aveva trovato appassiti in fondo al paniere cosa non avrebbe fatto per entrare in camera di un uomo con quella voce da zitella cercava di immaginarsi che stesse morendo per amor suo non più mai rivederti benché avesse l’aria più da uomo con la barba un po’ lunga a letto papà era lo stesso e poi non mi andava di fasciarlo e dargli pozioni quando si tagliò il dito del piede col rasoio a spuntarsi i calli paura d’un avvelenamento del sangue ma se fossi io per esempio ad ammalarmi allora vorrei vedere un po’…
[…]
…Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i geranii e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì e allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio Sì.

 


 

Raffaello Baldini (Michele), “Mo acsè” in La nàiva – Furistìr – Ciàcri, Einaudi, 2000 – (una grossa chiave)

Mo acsè, dal volti,
quant a tòurn a chèsa,
la sàira, préima d’infilé la cèva,
a sòun, drin, drin,
un’arspònd mai niseun.

 


 

Damiano Zerneri (Fiamma), da un brano inedito (seconda parte) – (una foto di Stalin)

Lee Harvey Oswald. Ho in mente alcune immagini di quest’uomo-folla. Con l’occhio pesto, con la smorfia in faccia di chi si accascia con una pistola nella pancia, in giardino col fucile in una mano e i giornali comunisti nell’altra. Lui, Lee Harvey, è un uomo-folla di quelli nascosti dentro grandi idee di vapore e poca visuale sul mondo. In “Libra” di Don DeLillo c’è un personaggio che in oscuro ufficio della CIA vaglia tutta l’enorme mole di materiale che nel tempo è sgorgata dal caso Kennedy. Vaglia e scrive e dorme in poltrone e scrive. Nella stanza. “Questa è la stanza dei sogni, la stanza dove ha impiegato anni e anni per concludere che la materia dei suoi studi non è la politica, o il delitto, ma uomini dentro piccole stanze”.
Uomini dentro piccole stanze vanno a formare la folla oceanica di Dallas, il 22 Novembre. Uomini e donne apparentemente innocui, anzi, festanti. E il presidente è solo, sulla macchina, come il dj Fatboy Slim alla festa Big Beat Boutique, laggiù sulla spiaggia di Brighton. I capelli al vento in un convoglio d’automobili che va lentissimo. Il presidente che avverte intorno a sé l’alito ferino della massa miscelato alla giornata di sole autunnale. E lassù, ai piani alti del deposito dei libri, c’è uno dei possibili pungiglioni con i quali la vita ti può colpire (sì, anche l’Agenzia appostata nel parco, dietro la palizzata del parcheggio, loro che sparano il proiettile che farà pollare il cervello del presidente fuori dal cranio). Il pungiglione dell’uomo folla. Il presidente, colpito a morte urla – nella mente -come il Polonio dell’Amleto shakesperiano “O, I am slain”.
Per rimanere dunque dentro alle vicende dell’Amleto, la storia dell’uomo-folla che uccide l’altro uomo della folla, quello che gli si contrappone quale vittima obbligata del rito, è un “play within the play”. Tutto accade come una recita prestabilita dentro la recita che è la vita o, in tono minore, questo testo che sto scrivendo.
Mai come nella storia, di folle e uomini che le fronteggiano si sente il clangore del ferro delle armi. L’eco degli otturatori che scattavano a Dallas prima del tiro incrociato si è sentito fino alle risaie del Vietnam. Uomini accucciati dentro la giungla neanche immaginavano, o quasi, che fuori da lì il mondo stava andando in una qualche direzione. Voci di un uomo che arrivano nella guerriglia e intridono la massa dei soldati che sta a mollo nella storia senza rendersene conto. La voce di un uomo nero come Jimi Hendrix alza il pelo sulle braccia ai marines in Vietnam. “Hendrix era stato nel 101° Airborne, e l’Airborne in Vietnam era pieno di elementi brillanti come lui, davvero semplici e buoni, ragazzi che si sarebbero sempre occupati di te nei momenti difficili” scrive Michael Herr nel suo libro “Dispatches”. Il simbolo dell’Airborne, paracadutisti dei marines, l’aquila dalla testa bianca emblema della nazione.
E come l’Etmano ucraino ne “La guardia bianca” di Bulgakov, uomo solo ed unico riferimento, sebbene ormai puramente nominale, per le genti, si precipita fuori dagli avvenimenti e lascia il suo popolo nelle mani dei bolscevichi entranti. “La città si gonfiava, si dilatava, rigurgitava come la pasta lievitata nella ciotola” dice l’autore della città di Kiev imbevuta della fuga generale.
Che questa storia della presa di Kiev, Bulgakov l’adattò per il teatro con il titolo “I giorni dei Turbin” dal nome della famiglia dei protagonisti. A Stalin, l’uomo d’acciaio, quello spettacolo piacque così tanto che chiuse in una gabbia per uccellini il suo autore. Per celia e per gioco, ma un gioco serio. Con il resto, con il corpo del popolo sovietico praticò un gioco più serio ancora. Lui, uomo indifeso al cospetto delle moltitudini, le stesse moltitudini aggredì e pizzicò nella pancia molle. Ed invece che essere mangiato dal demone della folla, lo azzannò a brandi di sangue caldo, e lo rovesciò a terra.
Che non resta, a me , ora, di andare, con le gambe fredde della stagione, ad infilarmi nel letto. Immagino allora, spesso capita, quei contadini delle steppe che in altri tempi dormivano sopra le grandi stufe di maiolica. Immagino il freddo e la tormenta fortissima che infuriava fuori. Mentre qui, presso di me, tùrbina (e non appare) la veglia che si trasforma in sonno. Io in questo momento sento fortemente di essere sulla superficie di un pianeta che viaggia veloce nel cosmo. E sono uno, e sono tutti, ma il sonno fortunatamente subito mi conduce via.

 


 

Valentino Zeichen (Elvio), da Io e Milla in via Nomentana – (una scarpa)

Di lì a poco, mosse qualche passo, e io dietro. Risalimmo la scalinata di fronte alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna: lei svoltò a sinistra. Per il giardino del lago. Le indicai il quadro romantico del laghetto, coi salici piangenti e i cigni veloci dentro al dipinto: lei volse la testa dal lato opposto. Si attraversò in silenzio Villa Borghese; a Porta Pinciana parve aver toccato una meta, e s’incamminò sicura verso Corso d’Italia. All’incrocio con via Po ebbi la prontezza di afferrarla sottobraccio e trattenerla, mentre un’auto sfrecciava col rosso. Lei non dette segno di scomporsi, lasciai la presa e seguitai a camminarle al fianco. A Porta Pia, là dove ha inizio l’odierna via Nomentana, dissi: Anche se tante belle ville, sepolcreti e parchi non esistono più, questa non è solo una qualunque strada a grande scorrimento, è ancora un monumento, e quando i platani mettono le foglie, formano un tunnel verde lungo ben quattro chilometri”. La cosa la lasciò indifferente.
“Il mito della via consolare fa sì che poche persone vi si avventurino a piedi, la percorrono preferibilmente in autobus o in macchina”. Quest’ultima osservazione non servì a farla desistere dall’inoltrarvisi. Oltrepassato Viale Regina Margherita, le indicai Villa Torlonia, sulla destra, Villa Paganini, sulla sinistra, per distrarla e rallentarne il passo svelto. E ne dissi di cose inutili prima di giungere all’incrocio con Viale XXI Aprile. Per non ferire il suo senso estetico, l’avvisai: dopo Sant’Agnese fuori le Mura e qualche altra bella villa, la strada sarebbe imbruttita: la Batteria Nomentana, gli orrendi scatoloni abitativi degli anni ’50. aggiunsi che non era il caso di proseguire oltre, anche perché mi stavano scoppiando i piedi. La pregai di fermarsi e di aspettare un autobus. E prendemmo al volo un tram, il Diciannove, quello che non passava mai.
[Quando fummo su, finalmente parlò]
“Se qualcuno prova a seguirmi, io mi metto a camminare più veloce e lo stronco, lei ha resistito perché deve avere delle buone scarpe”.

 


 

Patrizia Cavalli (Monica), una poesia da “Il cielo”, in Poesie (1974-1992), Einaudi, 1993 – (una cassata siciliana)

Per simulare il bruciore del cuore, l’umiliazione
dei visceri, per fuggire maledetta
e maledicendo, per serbare castità
e per piangerla, per escludere la mia bocca
dal sapore pericoloso di altre bocche
e spingerla insaziata a saziarsi dei veleni del cibo
nell’apoteosi delle cene quando il ventre
già gonfio continua a gonfiarsi;
per toccare solitudini irraggiungibili e lì
ai piedi di un letto di una sedia
o di una scala recitare l’addio
per poterti escludere dalla mia fantasia
e ricoprirti di una nuvolaglia qualunque
purché la tua luce non stingesse il mio sentiero,
non scompigliasse il mio cerchio oltre il quale
ti rimando, tu stella involontaria,
passaggio inaspettato che mi ricordi la morte.

Per tutto questo io ti ho chiesto un bacio
e tu, complice gentile e innocente, non me lo hai dato.

 


 

Patrizia Cavalli (Monica), una poesia da “L’io singolare proprio mio – Vado, ma dove?”, in Poesie (1974-1992), Einaudi, 1993 – (un cervello)

Io scientificamente mi domando
come è stato creato il mio cervello,
cosa ci faccio io con questo sbaglio.
Fingo di avere anima e pensieri
per circolare meglio in mezzo agli altri,
qualche volta mi sembra anche di amare
facce e parole di persone, rare;
esser toccata vorrei poter toccare,
ma scopro sempre che ogni mia emozione
dipende da un vicino temporale.

 


 

Marcel Proust (Giuseppe), da Contro Sainte-Beuve, in “Scritti mondani e letterari”, Einaudi, 1984, traduzione di Paolo Serini e Mariolina Bongiovanni Bertini – (la madeleine)

Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza. Ogni giorno mi rendo sempre meglio conto che solo indipendentemente da essa lo scrittore può cogliere nuovamente qualcosa delle sue impressioni, ossia qualcosa di lui stesso e la sola materia dell’arte. Quel che l’intelligenza ci restituisce sotto il nome di passato, non è tale. In realtà, come accade alle anime dei trapassati in certe leggende popolari, ogni ora della nostra vita, appena morta, s’incarna e si nasconde in qualche oggetto materiale; e vi resta prigioniera, prigioniera per sempre, salvo che noi non c’imbattiamo in quell’oggetto. Attraverso lui, la riconosciamo, la chiamiamo, ed essa viene liberata. L’oggetto in cui si nasconde, – o, meglio, la sensazione, perché relativamente a noi ogni oggetto è sensazione, – può darsi benissimo che non l’incontriamo mai. Così ci sono ore della nostra vita che non risusciteranno mai. Quell’oggetto è così piccolo, talmente sperduto nel mondo, e ci sono così poche probabilità che abbia a trovarsi sul nostro cammino!

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