57 – 5 febbraio 2011

Sabato 5 febbraio 2011, ore 18
Roma, Libreria Croce
Elementi di gastronomia letteraria

locandina PDF

Qui la cronaca della serata

Le letture

  1. Tova Mirvis, da Il mondo fuori
  2. James Joyce, da Ulisse
  3. Cormac McCarthy, da La Strada
  4. Joseph Conrad, da Cuore di tenebra
  5. Wladimir Kaminer, da La cucina totalitaria
  6. Jorge Boccanera, da Sordomuta
  7. Achille Campanile, da Rosmunda
  8. Claudio Piersanti, da I giorni nudi
  9. Giancarlo Tramutoli, da Eros lucano. Strascinati
    mollicati e curscati
  10. Helen Fielding, da Il diario di Bridget Jones
  11. Calixthe Beyala, da Come cucinarsi il marito all’africana
  12. Achille Campanile, da Elegia dei maiali
  13. Uwe Tellkamp, da La torre

Tova Mirvis (Fiamma-Nadia) da Il mondo fuori, trad. di Silvia Pareschi, Einaudi 2004

Il Shabbos cominciava diciotto minuti prima del tramonto e Naomi non poteva tardare. Alcune regole tolleravano eccezioni, ma sul Shabbos non si discuteva. Una volta cominciato il Shabbos, la casa sprofondava nella quiete: cena pronta, tavola apparecchiata, candele accese. Ma fino a quel momento Naomi, immersa nel vertice pre Shabbos, faceva tre cose alla volta per vincere il match settimanale contro l’orologio. Alcune sue amiche si sfiancavano a cucinare per Shabbos. Quando arrivavano gli invitati alla cena del venerdì sera, erano pronte per trascinarsi a letto. Si avventavano su ogni nuovo libro di ricette kosher che veniva pubblicato. L’ultima moda era quella di camuffare le pietanze tradizionali con ingredienti da buongustaio. Preparavano gefilte fish a base di salmone e lo servivano con salsa al limone e aceto invece che al rafano. Al posto del cholent di orzo e fagioli cucinavano stufato di agnello con riso. Ma Naomi non era tipo da cose elaborate o troppo organizzate. Aveva imparato a vivere con un ammasso di libri nello studio, con i giornali sul tavolo della cucina, con i vestiti di Ilana che dal pavimento della sua stanza traboccavano nel corridoio del primo piano e oltre. Correva da un capo all’altro della casa mentre gli ospiti risalivano il vialetto. Ignorava i nuovi e sempre più funzionali elettrodomestici che riempivano la cucina. Joel adorava quegli aggeggi, e aveva comprato una macchina per fare il pane in casa, una macchina per il cappuccino e un barbecue da appartamento. Imparare a usarli avrebbe richiesto più tempo di quello che le avrebbe fatto risparmiare, e così rimanevano inutilizzati. Naomi cucinava a modo suo, senza ricette, affidandosi unicamente alla memoria e all’istinto. Univa un goccio di questo a un pizzico di quello. Aggiungeva altre tagliatelle, un po’ di salsa e inventava una nuova pietanza. Quando finiva un ingrediente, lo sostituiva con un altro.

Adesso aveva davanti tre pentole di acqua bollente. Cercava di ricordare in quale pentola andasse il riso, in quale ciotola dovesse mettere le uova e l’olio e in quale solo un’ultima spruzzata di condimento. Era un sistema perfettamente collaudato che vacillava sull’orlo del caos. Ma se nessuno la interrompeva, riusciva a finire in tempo e a scivolare nello spazio tranquillo creato dal Shabbos.

Naomi nutriva grandi speranze per il Shabbos. Era l’unico momento in cui era certa che tutti sarebbero stati in casa. Joel faceva l’avvocato d’affari a Manhattan, un lavoro snervante che lo teneva impegnato fino a tardi. La famiglia si era abituata alla sua assenza […] Ma, volente o nolente, il Shabbos era l’unico momento in cui era costretto a lasciare il lavoro. Per tutte le venticinque ore del Shabbos, Joel non poteva rispondere al telefono, controllare l’email, ascoltare la casella vocale. Nessuno di loro avrebbe guardato la tv, usato il computer, guidato la macchina. Senza quelle scuse dietro cui nascondersi, sarebbe stato più facile comunicare. Naomi voleva che tutti rimanessero a tavola a chiacchierare. Voleva che sedessero insieme a cantare le canzoni tradizionali di Shabbos con le loro voci chiassose, disarmoniche, magari anche stonate. Tolse dal forno due polli arrosto, le verdure, i kugeln. Li dispose sul piano della cucina e controllò l’orologio: ancora un’ora. Quella settimana, Naomi voleva introdurre il Shabbos con calma. Voleva avere tutto pronto in anticipo, così prima di accendere le candele avrebbe potuto rilassarsi e riflettere sulla settimana trascorsa e su quella in arrivo […] Joel entrò in casa mentre Naomi tirava fuori l’ultimo kugel dal forno: ancora trenta minuti. Naomi lo baciò, e Joel andò di sopra a prepararsi. Ora, a venti minuti dall’inizio di Shabbos, mancava soltanto che la torta finisse di cuocere e che tutti andassero d’accordo.


James Joyce (Giuseppe), da Ulisse, trad. Giulio de Angelis, Mondadori, 1973 (pagg. 53-54)

Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica.
I rognoni erano nel suo pensiero mentre si muoveva quietamente per la cucina, sistemando le stoviglie per la colazione di lei sul vassoio ammaccato. Luce e aria gelida nella cucina ma fuori una dolce mattina d’estate dappertutto. Gli facevano venire un po’ di prurito allo stomaco.
I carboni si arrossavano.
Un’altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava lì, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente. Tazza di tè fra poco. Bene. Bocca secca. La gatta interita girò attorno a una gamba del tavolo con la coda ritta.
– Mkgnao!
– Oh, sei qui, disse Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco.
La gatta rispose miagolando e girò di nuovo interita intorno a una gamba del tavolo, miagolando. Proprio come quando incede impettita sulla mia scrivania. Prr. Grattami la testa. Prr.
Mr Bloom guardava curioso, gentile, la flessuosa forma nera. Pulita a vedersi: la lucidità del pelo liscio, il bottoncino bianco sotto la radice della coda, i lampeggianti occhi versi. Si chinò verso di lei, mani sulle ginocchia.
– Latte per la miciolina, disse.
– Mrkgnao! piagnucolò la gatta.
Li chiamano stupidi. Capiscono quello che si dice meglio di quanto noi non si capisca loro. Capisce tutto quel che vuole. Vendicativa anche. Chi sa che cosa le sembro io. Alto come una torre? No, mi salta benissimo.
– Ha paura dei polli, lei, disse canzonatorio. Paura del pìopìo. Mai vista una miciolina così sciocchina.
Crudele. La sua natura. Curioso che i topi non stridono mai. Sembra gli piaccia.
– Mrkrgnao! disse forte la gatta.
Guardò in su con gli occhi avidi ammiccanti per la vergogna, miagolando lamentosamente e a lungo, mostrandogli i denti biancolatte. Egli guardava le fessure nere degli occhi che si restringevano per l’avidità fino a che gli occhi divennero pietre verdi. Poi s’avvicinò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva appena riempito, versò il latte tiepido gorgogliante in un piattino e lo posò lentamente in terra.
– Grr! esclamò lei e corse a lambire.
Guardò i baffi splendere metallici nella debole luce mentre lei ammusava tre volte e leccava lievemente. Chissà se è vero che se glieli tagli non pigliano più topi. Perché? Risplendono a buio, forse, le punte. O una specie di antenne al buio, forse.
Tese l’orecchio al leccottìo. Uova e prosciutto, no. Niente uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca pura. Giovedì: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un zinzino di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz. Aspettando che l’acqua bolla. Leccò più lentamente, poi ripulì ben bene il piattino. Perché hanno la lingua così ruvida? Per leccare meglio, tutta buchi porosi. Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No.
Con le scarpe che scricchiolavano in sordina salì la scala fino al vestibolo, si fermò alla porta della camera da letto. Forse le piacerebbe qualcosa di saporito. Fettine di pane imburrato le piacciono la mattina. Forse però: una volta tanto.
Disse a bassa voce nel vestibolo vuoto:
– Vado qui all’angolo, torno tra un minuto.
Udita la sua voce dir questo soggiunse:
– Vuoi niente per colazione?
Un debole grugnito assonnato rispose:
– Mn.
No. Non voleva niente.


Cormac McCarthy (Michele), da La Strada, trad. di Martina Testa, Einaudi, 2007

Il bambino fu svegliato dal rumore di lui che macinava il caffè con un piccolo macinino a manovella. Si alzò a sedere e si guardò intorno. Papà?, disse.
Ciao. Hai fame?
Devo andare al bagno. Mi scappa la pipì.
L’uomo indicò con la spatola la bassa porta di metallo.
Non sapeva come si usasse quel gabinetto ma lo avrebbero usato ugualmente. Lì non ci sarebbero rimasti a lungo, e comunque non aveva intenzione di aprire e chiudere la botola più dello stretto necessario. Il bambino gli passò accanto con i capelli appiccicosi di sudore. E lì che c’è?, disse.
Caffè. Prosciutto. Focaccine.
Wow, fece il bambino.
Trascinò un armadietto basso sul pavimento e lo piazzò fra le due brandine, lo coprì con un tovagliolo e ci dispose sopra piatti, tazze e posate di plastica. Portò in tavola una ciotola di focaccine coperte con uno strofinaccio, un piatto di burro e una confezione di latte condensato. Sale e pepe. Guardò il bambino: sembrava sotto l’effetto di qualche droga. Tolse la padella dal fuoco e gli mise nel piatto una forchettata di prosciutto abbrustolito, ci aggiunse qualche cucchiaio di uova strapazzate, una bella porzione di fagioli in scatola e versò il caffè nelle tazze. Il bambino lo guardò.
Forza, gli disse lui. Che sennò si fredda.
Cosa devo mangiare per primo?
Quello che ti pare.
Questo è caffè?
Sì. Tieni. Spalmati il burro sulle focaccine. Così.
Ok.
Va tutto bene?
Non lo so.
Ti senti bene?
Sì.
Allora cosa c’è?
Secondo te dovremmo ringraziare questi signori?
Quali signori?
I signori che ci hanno regalato tutte queste cose.
Be’. In effetti potremmo ringraziarli.
Lo fai tu?
E perché non tu?
Non so come si fa.
Sì che lo sai. Lo sai come si fa a dire grazie.
Il bambino rimase seduto a fissare il piatto. Sembrava smarrito. L’uomo stava per parlare quando il bambino disse: Cari signori, grazie per le cose da mangiare e tutto il resto. Sappiamo che le avevate messe da parte per voi, e se voi ci foste ancora noi non mangeremmo niente, neanche se stessimo morendo di fame, e ci dispiace che non siate riusciti a mangiare queste cose ma speriamo che siate sani e salvi in paradiso vicino a dio.
Alzò gli occhi. Così va bene?
Sì. Direi che va bene.
[…]
Si sedettero su una brandina e si misero a giocare a scacchi, con indosso maglioni e calzini nuovi e infagottati nelle nuove coperte. L’uomo aveva acceso una stufetta a gas e bevvero Cocacola in tazze di plastica, e dopo un po’ lui tornò nella casa, strizzò i jeans, li riportò di sotto e li stese ad asciugare.
Papà, per quanto tempo possiamo restare qui?
Non tanto.
Cioè quanto?
Non lo so. Magari ancora un giorno. Al massimo due. Perché è pericoloso.
Sì.
Tu credi che ci troveranno?
No. Non ci troveranno.
Però potrebbero trovarci.
No invece. Non ci troveranno.


Joseph Conrad (Elvio), da Cuore di tenebra, trad. di Ettore Capriolo, Feltrinelli 2009

Dovevo cercare in continuazione il canale; dovevo distinguere, guidato soprattutto dall’ispirazione, i segni dei banchi di sabbia sommersi; stavo all’erta cercando i massi sprofondati; imparavo a serrare i denti con prontezza prima che mi mancasse il cuore quando rasentavo per un pelo qualche vecchio subdolo infernale tronco d’albero che avrebbe strappato la vita a quel battello di latta e affogato tutti i pellegrini; dovevo tener d’occhio le tracce di legno morto che avremmo potuto tagliare di notte per generare vapore l’indomani. E quando dovete badare a cose di questo genere, ai piccoli incidenti che avvengono alla superficie, la realtà – la realtà, vi dico – si affievolisce. La verità interna si nasconde – per fortuna, per fortuna. Ma io la sentivo ugualmente; sentivo spesso la sua quiete misteriosa che guardava intenta i miei trucchetti, come guarda voialtri quando vi esibite sulle funi per – quant’è che vi danno? Mezza corona per ogni capriola? …
Chiedo scusa. Dimenticavo l’angoscia che è il resto del compenso. E poi che importanza ha il compenso se il numero è fatto bene? Voi i vostri li fate benissimo. E io non feci male il mio, dal momento che riuscii a non affondare con quel battello durante quel primo viaggio. Mi stupisce ancora adesso. Immaginate un uomo che con gli occhi bendati si mette a guidare un carro su una brutta strada. Sudai e rabbrividii parecchio durante questa impresa, ve lo assicuro. Dopo tutto per un marinaio sfregare la carena della nave che dovrebbe restare sempre a galla sotto la sua responsabilità è il più imperdonabile dei peccati. Nessuno verrà mai a saperlo, ma voi la botta non ve la scordate di certo – no? È un vero colpo al cuore. Ve la ricordate, ve la sognate e – anni dopo – vi svegliate di notte e ci ripensate e sentite caldo e freddo in tutto il corpo. Non arrivo a dire che il battello rimase continuamente a galla. Più di una volta ci toccò procedere per un po’ a guado, con venti cannibali che sguazzavano intorno a noi per darci una spinta. Ne avevamo arruolati alcuni come ciurma durante il viaggio. Brava gente – i cannibali – a casa loro. Erano uomini con cui si poteva lavorare e io provo gratitudine per loro. E poi, in fin dei conti, non si mangiarono a vicenda sotto i miei occhi: si erano portati appresso una riserva di carne d’ippopotamo che finì per marcire e che col suo fetore mi riempì le narici del mistero della giungla. Puah! Lo sento ancora.


Wladimir Kaminer (Fiamma-Nadia), da La cucina totalitaria, trad. di Riccardo Cravero, Guanda, 2008

Per prima cosa, passammo al setaccio Kazan’ alla ricerca di qualcosa di commestibile. Ma nei negozi trovammo solo fiammiferi, acqua minerale, pantofole verdi e sigarette “Prima”. La nostra ultima speranza era Marat, un vecchio amico di Kazan’ che avevamo conosciuto anni addietro a Mosca. Solo che non sapevamo il suo indirizzo. Ma la gente di Kazan’ era gentile: si poteva chiedere qualunque cosa a chiunque si incontrasse. Dopo aver descritto ad alcune persone il nostro amico, ci fu indicata prontamente una casa. Marat era un ometto piccolo e agile con una lunga barba. Sembrava un po’ uno di quei monaci volanti di Shaolin di uno dei vecchi film cinesi. Abitava in un appartamento di due stanze con sua moglie e tre figlie adolescenti: Aurora, Venera e Zemfira. Una aveva i capelli rossi, l’altra era bionda e la terza bruna. Marat invece aveva in testa una gran pelata e di mestiere era poeta, pensatore e pittore. Inoltre traduceva in russo antiche poesie tatare e baschire e disegnava illustrazioni per fiabe popolari. Insomma, non faceva un lavoro sensato e tranne qualche mela non aveva niente da mangiare. […] Per cercare di capire come procurarci da mangiare a Kazan’, ci rivolgemmo alle sue figlie. Doveva esserci un segreto, pensavamo. Marat non si interessava del cibo. Lui dava la caccia alla sua musa e si nutriva prevalentemente di tè e sigarette “Prima”. Mentre beveva il tè, mangiava mele: ecco la sua cucina tatara.
L’economia pianificata del socialismo funzionava secondo una regola strana e imperscrutabile. Di regola non c’era niente da nessuna parte, ma a volte spuntavano le cose più strane nei luoghi più fuori mano. Le figlie ci raccontarono che a Kazan’ c’era un negozio in cui avevano sempre della carne.
“Ogni volta hanno qualcosa di diverso” spiegarono “Interiora, zoccoli, fegato o lingue di manzo”. Nel frattempo ci era venuta una fame tale che non c’era zoccolo al mondo che potesse spaventarci. Ci saremmo mangiati pure delle corna. Perciò andammo tutti insieme al negozio. Quel giorno però non c’erano in vendita zoccoli o corna, ma solo mammelle. “Vi farò il karik karta” disse Marat “un’antica pietanza tatara”. […] Comprammo cinque chili di mammelle.
“Per prima cosa, le mammelle vanno tenute a bagno qualche giorno” ci spiegò Marat. Ma considerata la gran fame che avevamo si risolse che le avremmo cucinate subito. Le figlie misero dell’acqua sul fuoco. Le mammelle colorarono l’acqua di bianco, e noi fummo incaricati di asportare la schiuma che affiorava. Tutta la famiglia si riunì intorno ai fornelli. Dopo cinque ore di cottura, l’acqua era ancora lattiginosa. Marat infilò un dito nell’acqua bollente, strofinò le mammelle e scosse la testa. Ancora non erano pronte. Cambiammo l’acqua e bevemmo il concentrato di latte. Non aveva un sapore cattivo, era in qualche modo esotico. Quindi riprendemmo la cottura, che proseguì per quasi tutta la sera. Le figlie portarono un mangiacassette e arrivarono alcuni vicini incuriositi dal nostro esperimento culinario. Questi portarono con sé un po’ di pane, della salsiccia fatta in casa e delle patate. Così in qualche modo tutti riuscimmo a sfamarci, almeno per il momento e al mio amico Katzmann venne addirittura la diarrea, perché aveva mangiato delle mele sul concentrato di latte. Intanto le mammelle, che continuavano a cuocere, si erano fatte pian piano gialline.
“Colore sbagliato, ancora non sono pronte” mormorò Marat.
Quella stessa notte Katzmann e io decidemmo di lasciare Kazan’ per dirigerci verso Astrachan. Perciò non ho mai saputo che sapore abbiano le mammelle. E che colore assumano a fine cottura. Il karik karta sarà verde, blu o rosso? Magari Marat lo sta ancora preparando… Ma il principio culinario più importante che ho imparato a Kazan’ è il seguente: in cucina non contano soltanto gli ingredienti.


Jorge Boccanera (Alessio), da Sordomuta, trad. di Alessio Brandolini, LietoColle, 2008

CUCINA

I tuoi sguatteri camminano tra colonne di fumo
e le bestie appese alle travi del tetto.
Che portano e riportano nei loro vassoi?
Gocce di pioggia, manciate di terra,
così che mani di bambino possano fare pupazzi.
Impasta! Impasta! (dicono gli sguatteri a voce bassa).
Lavora! Abbatti! (dicono e sputano di lato).

Intruglio in alluvione di spezie.
Bollori, febbri di riso.
Stufati con un osso danzante.
Modi di schiumare, tripperie.
Di tutto il cuore: grasse fritture.

Vanno tra lampi e tavole strapiene.
Cosa portano e riportano nei loro vassoi?
Gocce di pioggia, manciate di terra,
così che le mani dei bambini possano fare pupazzi.
Impasta! Impasta! (dicono quelli a voce bassa)
Lavora! Abbatti! (intanto sputano di lato).


Achille Campanile (Antonella e Claudio), da Rosmunda (tragedia in cinque atti), cit. nell’Introduzione a Opere, Bompiani, 2001 (pag. X)

Alboino
Bevi Rosmunda
nel teschio tondo
di tuo papà
re Cunimondo
Rosmunda
Caro Alboino
bere non posso
tutto quel vino
dentro quell’osso.
Alboino
Bevi Rosmunda
lo vuole il re.
Rosmunda
Ahimè! Ahimè!
Caro Alboino
non amo il vino
mi dà alla testa.
Alboino
Ma oggi è festa
Bevi, ti dico: di questo vino
bevine almeno
un gocciolino.
Rosmunda
Te lo ripeto
non posso bere
tutto quel liquido
senza bicchiere.
Alboino
A far bisboccia
sì, non ti va
nella capoccia
del tuo papà?
Rosmunda
Visto che il vino
come ognun sa
mi dà allo stomaco
l’acidità?
Alboino
Tracanna orsù!
Rosmunda
Glu, glu, glu… gl! Ecco fatto il voler vostro
brutto mostro
Oggi bevuto ho
dentro il paterno vaso
domani mangerò
di mio marito il naso…


Claudio Piersanti (Michele), da I giorni nudi, Feltrinelli, 2010

Sprofondarono senza rendersene conto in una vera luna di miele. Potevano stare in spiaggia senza costume, dormire sulle stuoie o nuotare senza essere disturbati. Ogni tanto Alberto saliva sopra uno scoglio e scrutava i dintorni, ormai solo per gioco. Non c’erano turisti e i pochi abitanti del paese rispettavano una loro antica consuetudine: andavano in spiaggia solo dopo la metà di giugno, indipendentemente dal caldo. Sapevano che l’estate sarebbe stata lunghissima e con profonda saggezza ancestrale avevano deciso di porle dei limiti. Alberto e Lucia seppero approfittarne.
In quei giorni la loro alimentazione si ridusse all’essenziale. Tigelle secche forse stoltamente ammorbidite nel mare, pomodori, sale, origano. Leggevano, prendevano il sole, nuotavano e facevano l’amore. Erano sempre nudi. Sembrava che avessero deciso di saziarsi fino a non poterne più, d’amore e di sole. Dovettero rendersi conto che la sazietà non è di questo mondo. Tra le frasi memorabili di Lucia, un malizioso “Buon compleanno, amore” detto al risveglio del giorno fatidico, per dirgli che era lei stessa, abbronzata e profumata di lavanda, il suo regalo di compleanno.
Per festeggiare avevano prenotato nella trattoria del paese e verso mezzogiorno furono costretti a rivestirsi. La proprietaria della trattoria era una lontana parente di Alberto, così lui si sentì in dovere di indossare l’abito di lino e Lucia il vestito più bello che aveva portato. Quando si guardarono scoppiarono a ridere: erano abituati a vedersi nudi e si trovavano ridicoli. Andarono in paese a piedi, tenendosi per mano, e come sempre si sentirono molto ammirati. Il tavolo apparecchiato per loro era sotto un grande olmo, ma soffrirono il caldo ugualmente. Ogni tanto Alberto si allargava il colletto della camicia e prendeva fiato platealmente. Mangiarono pesce appena pescato, bevendo vino bianco forte e aromatico. Come dessert fu servita una torta di frutta, così grande che decisero di dividerla con gli altri avventori. Non erano più abituati a mangiare tanto e il caldo era ormai insopportabile. Tornarono a casa stremati e si spogliarono in fretta, poi, avvolti negli asciugamani, si diressero verso il mare. Si addormentarono nudi sulla loro piccola spiaggia. Ogni tanto giungeva fino a loro il martellio dei muratori, ma ci si abituarono presto. Un delicato venticello di ponente rendeva la temperatura perfetta. Il cielo era azzurro chiaro e il mare sembrava addormentato ai loro piedi. Piccole, dolcissime onde ipnotiche accarezzavano il bagnasciuga.
Era tardo pomeriggio quando Lucia si svegliò e scoprì di essere sola. Prima di andarsene Alberto l’aveva coperta con un pareo, ma lei avrebbe preferito essere svegliata. Si era abituata a dormire con lui e la solitudine le fece paura. Andò verso casa per cercarlo e si tranquillizzò perché vide la macchina. Entrò in casa sbarazzandosi del pareo, certa di trovarlo in camera. Alberto non c’era, mancavano anche i suoi vestiti. Su una sedia trovò biancheria da lavare, sua e di Alberto, e la mise diligentemente nel cesto. Provò a cercarlo al telefono ma lo sentì squillare a due passi da lei, dimenticato sul letto. Alberto non era un grande camminatore e non doveva essere distante. Forse era in strada e stava parlando con i muratori. Lo chiamò diverse volte, ma le rispose soltanto il cane dei vicini. Aspettò cinque minuti, poi si vestì e andò a cercarlo con la macchina.


Giancarlo Tramutoli (Nadia), “Eros lucano. Strascinati mollicati e curscati”, in Scrittori in cucina, Jar, 2010

Disporre la farina a fontana sul tagliere
(i taglieri ancora ieri erano alberi)
Impastare con acqua tiepida e sale
(avere le mani in pasta, qui, è indispensabile)
Lasciar riposare qualche minuto
(può dormire, sognare forse, ma evitate che russi)
Strascinare i pezzetti col dito
(è per questo che si chiamano così)
Far soffriggere i peperoni cruschi
(meglio se sono di Senise, sennò no)
In abbondante olio d’oliva caldo per pochi secondi
(così raffreddandosi restano croccanti e fanno rumore)
E due pugni di mollica di pane sbriciolata col peperoncino
(il piccante è afrodisiaco, quindi se siete soli, attenzione:
è facile che i pugni diventan pugnette)
Saltare in padella con gli strascinati ben scolati e molto al dente
(mi raccomando il colpo secco di polso al manico e attenzione al soffitto)
E aggiungere del cacio ricotta appena grattato
(se fuori nevica, è meglio)
Ovviamente innaffiare il tutto con Aglianico del Vulture
(vino vulcanico che predispone ad una benefica eruttazione)
Anche solo un bicchiere, come dice il medico
(allora usate, ovviamente, il balloon da mezzo litro).


Helen Fielding (Nadia), da Il diario di Bridget Jones, trad. di Olivia Crosio, Sonzogno, 2001

Sono eccitatissima per la cena.

Ecco il menù:
Vellutata di sedano
Tonno alla Griglia su vellutata di Concentrato di Pomodorini Ciliegia con Confettura d’Aglio e Patate Fondant
Composta d’Arance. Crema inglese al Grand Marnier.

Sarà una meraviglia. Mi creerò la fama di saper cucinare piatti sofisticati senza il minimo sforzo (apparente). La gente verrà a frotte alle mie cene, commentando entusiasta: “È davvero favoloso andare a cena da Bridget: si mangia cibo da Guida Michelin in un ambiente bohemien”. Mark Darcy ne avrà un’ottima impressione e si renderà conto che non sono né una persona banale né un’incompetente.

Il giorno prima della cena:
Sono appena tornata da un’orrenda esperienza colpevolizzante da single di ceto medio al supermercato, dove alla cassa mi sono ritrovata a fianco di adulti funzionali con figli che compravano fagioli, bastoncini di pesce, pasta con le letterine dell’alfabeto ecc. mentre nel mio carrello avevo:

20 teste d’aglio
1 lattina di grasso d’oca
1 bottiglia di Gran Marnier
8 tranci di tonno
36 arance
2 litri di panna
4 stecche di vaniglia da 1 sterlina e 39 ciascuna.

Ho messo le carcasse di pollo nella pentola. Il guaio è che per insaporire il brodo dovrei legare insieme del sedano e un porro con dello spago ma l’unico spago che ho è blu.

Il giorno dopo, poco prima della cena:
Dio mio. Ho appena sollevato il coperchio della pentola per togliere le carcasse di pollo. La minestra è blu. La composta di arance, in compenso, ha un aspetto fantastico.

ORE 21.
Adoro i miei adorabili amici. Sono stati più che sportivi con la minestra blu, anzi Mark Darcy e Tom hanno addirittura discusso a lungo sul fatto che nel mondo alimentare dovrebbero esserci meno pregiudizi di colore. Dopotutto, come ha detto Mark, è giusto che uno arricci il naso davanti a una minestra blu solo perché non esiste nessuna verdura di quel colore? Non è naturale neppure l’arancione dei bastoncini di pesce. Non importa. Il secondo sarà saporitissimo.

ORE 21, 15.
Tragedia. Doveva esserci qualcosa nel frullatore, tipo un detersivo, perché il purè di pomodorini ciliegia fa la schiuma e ha tre volte il volume originario. Quanto alle patate Fondant dovevano essere pronte dieci minuti fa e invece sono dure come sassi. Forse è il caso di metterle nel microonde. Oddio! Ho appena guardato in frigorifero e il tonno non c’è. Che fine ha fatto il mio tonno?

ORE 21,30.
Sia ringraziato il cielo. Jude e Mark Darcy sono venuti in cucina e mi hanno aiutata a preparare una frittata. Abbiamo messo il libro di ricette sul tavolo e tutti quanti abbiamo guardato nella figura come sarebbe stato il tonno alla griglia. La composta di arance verrà bene, almeno quella. Tom ha detto di non disturbarmi a fare la crema inglese al Gran Marnier perché possiamo benissimo bere il Gran Marnier così com’è.

ORE 22.
Sono molto triste. Mi sono guardata ansiosamente in giro mentre tutti assaggiavano il primo boccone di composta ma c’è stato solo un silenzio imbarazzato.
“Cos’è, cara?” ha chiesto finalmente Tom. “Marmellata d’arancia?”.

Dopo tutta quella fatica ho servito ai miei ospiti:
minestra blu
frittata
marmellata d’arancia.


Calixthe Beyala (Elvio), da Come cucinarsi il marito all’africana, trad. di G. Amaducci e C. Sorace, epoche 2008

C’era una volta un uomo che viveva tra le montagne, nella società degli animali. Le vacche gli davano il latte, le pecore gli tenevano compagnia, gli uccelli gli facevano vento con le loro ali colorate, i gatti lo accarezzavano e i conigli lo riscaldavano quando le notti erano fredde. Era così felice tra quelle montagne da non sopportare neppure la vista di un essere umano. Un giorno, al sorgere del sole, trovò una donna accoccolata sotto la sua veranda. Stava osservando i rosai piantati nel cortile. I rosai erano in fiore e i fiori erano neri.
“Sei tu Biloa?” gli chiese.
“Non ho nome per la razza degli uomini” rispose lui.
“Eppure, mi hanno detto che attraversando il fiume e scalando questa montagna sarei arrivata a casa di Biloa”.
L’uomo spostò lo sguardo e contemplò la donna. I suoi occhi erano neri come la notte. I denti davanti erano spaziati e la bocca rossa disegnava una farfalla.
“Non ho bisogno di nessuno con cui condividere il futuro. Non sono io”.
“Ci avrei scommesso” replicò la donna.
Poi, gli raccontò la sua storia.
Fin da quando era molto piccola, un uomo la raggiungeva sul giaciglio. Si chiamava Biloa. La cavalcava e le diceva che la sua donna era lei e nessun’altra. Le aveva mostrato una voglia sulla natica sinistra. “Così mi potrai riconoscere” le aveva detto.
“Non sono io”.
Ma all’epoca, continuò la donna, era occupata a crescere i suoi fratellini, a mungere le vacche e a nutrire i maiali. Gli aveva detto di chiamarsi Andela.
“Non sono io”. Sapeva dove ritrovarlo perché la sua casa le era apparsa in sogno. Amava quell’uomo. Non avrebbe mai potuto vivere senza di lui, era certa di appartenergli per l’eternità.
“non sono io”.
Sapeva che Biloa amava il pesce e la lepre affumicati, ma anche il dolé, che del resto aveva portato con sé nel caso l’avesse incontrato.
A quel punto, rimasero a lungo in silenzio. Poi, facendo scivolare lentamente la mano, Andela sollevò il coperchio del suo paniere. L’odore del dolé con carne e gamberetti si diffuse nell’aria, penetrò nelle narici di Biloa offuscandogli la mente, alterandogli i sensi e turbandogli il corpo.
“Forse sono io” disse.
Si chinò, sollevò la donna, la portò in camera sua e chiuse la porta dietro di sé.


Achille Campanile (Giuseppe), “Elegia dei maiali”, da Cantilena all’angolo della strada, in Opere, Bompiani, 2001 (pagg. 1400-1401)

E cominciate a scendere anche voi, grassi maiali. Dagli allegri cortili di montagna, che amavate, su carretti che sembrano quelli dei monatti, irti di zampette all’aria, carichi dei vostri rosei pancioni sparati, e tremuli di pappagorge coniche e di codini a spirale, arrivate lentamente in città e prendete posto alle porte delle norcinerie.
Vi aspettavamo.
Come siete pallidi, disfatti e tragici. Al paragone son nulla le testoline di vitello, appese come sanguinosi trofei nella crudele foresta cittadina, che pure sono così pallide, tristi e infantili, e che sembra si sieno addormentate dopo un lunghissimo pianto.
Il fatto è che non eravate nati per la tragedia. Nel giorno supremo le vostre grida furono disperate. Trovaste accenti che avrebbero intenerito un macigno; piangeste come nessuna creatura al mondo sa piangere, allorché vedeste balenare un affilato coltello e un oscuro presagio vi avvertì che l’ultima ora vostra era suonata. Ma non foste ascoltati. I cuori dei carnefici non s’intenerirono. E nella vostra morte non ci fu stile, non ci fu un momento di grandezza. Vi abbandonaste indecentemente alla paura e avreste fatto qualsiasi viltà pur di salvare la pancia. Invano. Questo per voi proprio non ci voleva. Questo non ve lo aspettavate. Eravate i meno adatti alla fine violenta.
Ben vi sta, o maiali. La vita fu per voi troppo facile e comoda e non vi mancò nulla; non pensaste che a mangiare, bere e dormire.
E dunque statevene lì, sconciamente inchiodati alle porte delle norcinerie. Forse era scritto nel libro del vostro destino, di fare questa misera fine in salsicce, salami, prosciutti, sfrizzoli e vesciche di strutto. E le vostre anime scendano nel più profondo dell’Inferno.


Uwe Tellkamp (Alessio), da La torre – Storia di una moderna Atlantide, trad. di Francesca Gabelli, Bompiani, 2010

Lange e Stahl si sfregarono le mani, impazienti e si leccarono le labbra. Il tè, il caffè, e il cacao appena fatto profumavano; c’erano marmellata di meta cotogna e d ciliegie, mousse di prugne e miele di bosco e vicino al vassoio dei panini, coperto con un fazzoletto, c’era un piatto con una specialità di Libussa: una specie di pasta compatta di albicocche secche tagliata a fettine sottili. Christian, che sbirciava di continuo in direzione del piatto incontrando spesso il ghigno di Stahl, che sedeva molto più vicino di lui a questa leccornia, pensava che stimolasse la crescita e lo sviluppo decisamente più del latte caldo. Libussa e suo marito giunsero le mani in preghiera “Siediti alla nostra mensa, Signore, e benedici i doni che ci hai dato”. Radio Dresda trasmetteva una poesia di un meritevole combattente e alto funzionario dell’associazione degli intellettuali. Meno ascoltava con una smorfia di sofferenza sul volto, mentre gli altri, anche Christian, si servivano impassibili. Parlava di ideali, di un futuro luminoso, di Lenin e Marx, e di atti eroici nei cantieri del domani, della creazione del comunismo e “di te, compagno, che siedi quieto a colazione, /libero dai crucci di coloro, / che sono di guardia!”. Stahl, che si stava aprendo un panino, s’interruppe. “Di’ un po’ Meno, devi leggere tutti i giorni roba simile? ‘Tu che siedi quieto a colazione…’” (…)
Christian capì che il momento era favorevole e infilzò con la forchetta due fettine di dolce alle albicocche.
“Questo è ciò che ascoltano volentieri a Bisanzio. Se fosse per loro gli scrittori dovrebbero scrivere solo roba del genere.”
“Devono proprio trasmetterla? Tot versi al mese per i funzionari che fanno pacificamente colazione? Non potrebbero,” Stahl si guardò intorno, cercando, “mettere in versi qualcosa di quotidiano”. (…) Meno rise, afferrò una rosetta, l’osservò un momento, con un lampo beffardo negli occhi. Si alzò, protese il panino davanti a sé con un gesto teatrale:

È te, schietta rosetta di Dresda, che voglio cantare,
tu che rigogliosa e paffuta reclami una fame insaziabile,
vieni e dimmi, arrivi forse dallo spaccio elisio,
t’ha forse raschiata dalla teglia statale il fornaio Nopper,
o forse provieni con sentimento dall’infarinata bottega di Wachendorf,
o dalle ceste già imbronciate di primo mattino di Walther o del panettiere Georg?
Oh su, evento pastoso di Dresda, parla,
come dovrebbe chiamarti la bocca cupida e vorace del tuo cantore,
che con labbra ingorde compone per te un’avida canzone?
Orgogliosa ed elastica come… un seno di fanciulla? Invogli all’assaggio,
ma soltanto di quel che mi vorrai concedere,
dove invece il cantore, come un cane affamato, desidera affondare il suoi denti
ululando e sbranando con fauci animali,
cospicui brandelli dai tuoi fantastici fianchi. Oh, ma come!
Quale nome posso darti, tu, viola cotta al forno,
delizia del palato, dattero vaporoso, cornamusa di Dresda,
cupola da sbaciucchiare e baciata dall’arte,
come puoi sopportare in silenzio quel caldo infernale
oh rosetta capolavoro del genio sassone?